Vanni Ronsisvalle
Nel 1919 Marcel Duchamp disegnò un paio di baffi sul viso della Gioconda (L.H.Q.0.O.). Il gesto, anzi qualcosa che collocandosi più in là del gesto andrebbe più nobilmente definito atto, reagiva all’espressione allora corrente «bète comme un peintre», essere stupido come un pittore. Duchamp non intendeva più essere stupido come un pittore. Al contrario da quel momento, o quasi, intese mettere « di nuovo la pittura al servizio della mente ». Come dire sfuggire alla fisicità della pittura. Su questa strada, che è una specie di parto indolore verso una supposta maturità stilistica (una volta che sono stati digeriti tutti gli stili), si avventurano e si avventurarono in molti; ristabilire il concetto di intelligenza della pittura in un mondo in cui altri artisti (poeti o musici), sono pigri e tristi, cattivissimi tra loro per i pittori una specie di scommessa per riacquistare il diritto di stare nella società quanto più la società se ne infischia degli uni e degli altri. Di questi « eroi » sono ora affollati, stipati gli scaffali; tutti in genere sollecitati dal readyade; infatti il readyade agevola la scomposizione del temporale e dello «spazioonvenzione», aiuta a far saltare gli schemi, operazione indispensabile per redimere dalla frustrazione ogni intelligenza pittorica. Da ciò nasce anche, a proposito del pittore siciliano Jean Calogero, il comparire di una sua particolare esperienza iconica non sospetta, comunque non altrettanto esposta ad interpretazioni tendenziose. Il suo ricalcare prototipi è del tutto « of course». Una volta venni giù da un aereo nelle vicinanze di una piccola città degli Stati Uniti, per l’esattezza Rapid City, South Dakota. Poichè dovetti aspettare a lungo un tale che era stato pagato per venirmi a prendere in auto, ciondolai nell’attesa da una parte all’altra del campo. Non vi era nulla da vedere, l’aeroporto aveva l’aria casalinga e modesta, annegato per tutti e quattro i lati nell’oceano della prateria; la città, questa Rapid City, non si riusciva ad immaginare da che parte fosse in quel libero paesaggio senza segni di case. Un pellerossa scopava la pista con attenzione e calma sedendo spesso lungo i bordi a contemplare il nulla. Poi dal cielo sbucò un piccolo aereo da turismo, planò con garbo e ne saltarono fuori quattro cowoys. Fu a questo punto che il paesaggio si animò; i quattro erano proprio quattro autentici cowoys e non me ne lasciai sfuggire nemmeno un particolare poichè erano i primi cowoys in carne ed ossa che mi accadeva di incontrare dai tempi dell’infanzia, popolata in quel senso soltanto dai cartacei fantasmi di Buffalo Bill e dei suoi «pards » Wildill e Nick Warton, (oggi sappiamo, al lume della storia, quali mascalzoni fossero costoro). Così li seguii, affascinato dai cappelloni, dalle pistole, dagli stivali sgangherati, dall’andatura dondolante sui tacchi alti; li seguii scivolando sul prato e lungo gli hangars, con uno stile che quel pellerossa addetto alle pulizie non poteva non trovare ineccepibile; sino a quando i quattro ragazzi della prateria, svoltato un angolo si diressero verso una tettoia di bandone. Circondata da un basso recinto, ombreggiava una decina di cavalli già sellati e tutto. I cowoys ne staccarono quattro, vi montarono in groppa e se ne andarono al trotto sparendo ben presto lontano, lontano… In cinque minuti, così, quei tipi avevano scavalcato con noncuranza e disinvoltura uno spazio non indiferente tra passato e presente, tra ieri ed oggi spadroneggiando di qua e di là del crinale che divide le epoche ed anche le distanze terrestri. Un’altra volta sempre in America ma assai più al nord, nella parte vecchia della città di Toronto, perla dell’Ontario e per quel che mi riguarda dell’intero Canada, fui invitato a visitare ciò che avrebbe dovuto essere l’Ottava Meraviglia del mondo; una costruzione barocca, un edificio in puro stile rococò dall’arredamento perfettamente intonato all’architettura, sotto sventagliate di stucchi, di volute di ferro, di spirali marmoree gonfie e magniloquenti. La mia guida, una ragazza seriamente al corrente in fatto di studi e comunque persona di buon gusto, aveva gli occhi umidi nell’esibirmi quel portento, così fiera da non avvertire l’incontenibile senso di disgusto, il disagio fisico del visitatore oppresso e nauseato da quella messa in scena orrendamente demilliana. Ma alla fine dovetti persino intenerirmi per quel candido entusiasmo, quella innocente esaltazione; poichè la ragazza si accendeva d’entusiasmo, si esaltava non tanto per le linee assurde dell’edificio quanto per la grottesca trovata di chi aveva innalzato nel cuore della modernissima Toronto dove nidificano tre milioni di neocanadesi, intorno all’antico villaggio venduto nel 1787 dagli indiani Troquois a lord Dorchester un finto « hotel particulier » come se ne vedono senza difficoltà a Parigi, una maison residenziale con tetto d’ardesia ed imponenti finestre dagli infissi laccati di bianco. Infatti riflettei era ancora un modo di infischiarsene del tempo che passa, delle società che cambiano, dei paesi che vanno su e giù nel fiume della storia, dell’Europa che declina e degli altri continenti in crescita. Un modo per esorcizzare tutte queste convenzioni e (me ne convinsi più tardi) un modo non soltanto « americano », cioè un fenomeno non soltanto tipico dei paesi parvenus, dei paesi senza passato, dei paesi con il complesso di non avere alle spalle una tradizione come, fin troppa, ne possie. dono gli europei. Perchè qualche tempo dopo, traversando senza una meta particolare la piana di Catania, appena scavalcato il Simeto sulle cui rive si troverebbe persino l’ambra sul fianco di una collina pelata, bianca di pietre calcinate, al cospetto di un Etna nero e gigantesco, fumigante verso ovest, sul fianco di quella collina mi imbattei in un castello goticò. Fintissimo, ed ancora fresco di calce ma ineccepibile nelle sue linee verticali ed austere, nelle torrette merlate, nelle cupole aguzze, nelle bifore dalle colonnine serpeggianti e gli archi acuti. Dettaglio trascurabile, di cui mi resi conto avvicinandomi stupefatto nel frastuono delle cicale spadroneggianti in quel terso mezzogiorno siciliano, il castello aveva dimensioni dettate da Gionathan Swift di ritorno da uno dei suoi viaggi a Brobdignac o a Lilliputh; tutto era riportato in scala nella misura di una qualsiasi villetta come se ne vedono tante allineate dalla speculazione nell’esigua terra disponibile tra binari ferroviari e bagnasciuga, già lungo le italiche coste. Accanto ad un castello vero come quelli tedeschi o scozzesi, un maniero della Loira o del favoloso Reno, il castello catanese ostentava le dimensioni reali di un canile. Considerazioni economiche avevano dovuto frustrare il sogno gotico del padrone di casa; ma anche lui, nel rombo delle cicale mediterranee, si era procurato il modo di tuffarsi in pieno medioevo, spiando dalle sue torrette il passaggio di Ivanohe e di Lucia di Lammermoor, del paggio Fernando e di un Mac Duff, di un sir Gay di Clifford, eccetera. Ora tutto questo non significa nulla se non lo rapportassimo a quelle forze latenti o scatenate che conferiscono a chiunque la possibilità di esorcizzare lo spazio ed il tempo (l’oggi ed il qui, l’ieri o il domani e l’altrove ); a tutti e naturalmente agli artisti più che a qualsiasi altro. Naturalmente l’artista di cui si tratta in questo libro non è il primo e non sarà l’ultimo ad avventurarsi in tale territorio atemporale e dichiaratamente ageografico, tanto più che nel senso specifico l’avventura è circoscritta ad un divertissement ambivalente e, tuttosommato abbastanza ambiguo e, per la seconda parte (iconografica) del libro, all’interpretazione fabulante di un mitologia che probabilmente non esiste da alcuna altra parte se non nella mente dell’artista, o di una archeologia che nulla deve a Schliemann, a lord Hamilton, grande trovarobe dei Borboni e giù di lì sino ai nostri massimi escavatori, armati di congegni elettronici ed altre attrezzature sofisticate… Insomma la doppia avventura in cui si cimenta il nostro Jean delizioso esotismo in un personaggio così fisicamente impastato di palesi umori e terrestrità della terra d’origine scava gallerie dentro aeree pareti in cui fantasia, onirismo, ebrezze, angosce esistenziali delineano infinite possibilità di paesaggio e di storia, storia mai accaduta e geografia mai tracciata. Nella realtà essa ovviamente riflette il modo ambivalente terragno e fumoSO del vivere libero, in soggezione di sè stesso, del pittore Jean Calogero. Come è noto _ a me lo è stato in un primo tempo per inter. posta persona il pittore Jean Calogero vive al cospetto dell’om. bra lucidamente nera di un castello medioevale che sorge, ora terribile ora acquiesciente (soprattutto se ne intirizzisce gli spalti una riepida brezza di sudvest), dal decantato ed omerico mare Jonio; il castello di Aci, ovverosia l’Aciastello che pur nella dignità fosca di truci leggende amori, tradimenti ed assassinii), campeggia tra l’Etna e il mare, tra i faraglioni di Trezza e le cimi. miere della zona industriale di Catania, col nitore inequivocabile di una cartolina illustrata. Ma senza la conseguente volgarità. Così intimo a questa mole rocciosa ed importante, e di recessità così prostrato da essa, come tutti gli artisti che hanno avuto la disgrazia di nascere o di esplodere in un luogo fortemente caratterizzato, Jean Calogero si porta dentro, e nella sua pittura, questa avvertibile volontà di redenzione; questa «improunable» avversione ad uscire dal contesto prefabbricato, nel senso di tabbricato prima, ante et non postea la nascita e svolazzare libero in mondi propri o appropriati. Cosa ha fatto Jean Calogero così tallonato, stretto ai fianchi dai fantasmi della leggenda medioevale e nel contempo, appena sporgendosi dal terrazzo di casa sua, umiliato dalla vicinanza della Casa del Nespolo? Cosa fa Jean Calogero assordato dalla straripante tragedia verghiana che urla da tutte le parti, dai muri e dalle stradine, dalle siepi spinose e dagli scogli cinti alla vita da orli di azzurra spuma jonica, giù lungo le pagine de « I Malavoglia»? Se fosse stato uno scrittore si sarebbe rifugiato nella positivistica letteratura che scacciando i fantasmi esalta il trionfo della meccanica, del razionale, la vittoria della luce del progresso sul buio delle coscienze pigramente ancorate al passato; insomma una specie di Ballo Excelsior. (Di libri così ne sono stati scritti a pile, a cavallo tra i due secoli; e sono stati giustamente dimenticati avendo vinto con le sue arti candide o, a seconda dell’occasione, subdole il più rugiadoso romanticismo, il più insidioso manierismo). Ma essendo Jean Calogero un pittore, ed un pittore non incline a farsi condizionare dall’angusto spazio di culture dettate, così almeno mi ha detto con una punto d’orgoglio isolano, si reinventa con gli stessi materiali un’ottica spropositata sia nell’aprirsi verso un surrealismo mediterraneo, così etichettato da Leonardo Sciascia, sia nel paludarsi entro agghindate acconciature che a tutta prima sembrano il risultato di attente letture di tutti i più vieti maestri del nostro ed altrui Novecento, ma poi si stabilizzano subito in pacifiche invenzioni di ninnoli, bibelots, bautte veneziane, serti olimpici, centrini e sottocoppe fatte in casa, genuinumente tessuti nella domesticità di uno studio ben al riparo dagli spifferi gelidi (o roventi) di questo nostro tempo insaziabile di tutto, anche del Kitsch. Quando John Steinbeck, trasgredendo alla formula per cui sono importanti gli scrittori americani pari suoi un debito che la vecchia Europa non finirà mai di pagare si imbarcò in quella biografia di un re francese che spense di colpo la sua fama, corse un rischio premeditato. Gli andò male e oggi arricciano tutti il naso, dimenticando simultaneamente anche Pian della Tortilla e The Grapes of Wrath (Furore). Ma se prendiamo Pian della Tortilla o Furore, cioè tutti i problemi dell’America del Preew Deal, uscita malconcia dalla crisi del ’29, e trasferiamo l’insieme di tutte queste cose in una condizione storica abnorme quale era quella della Francia del seco lo XVIII senza ledere il buon gusto, la poesia e la verità politica dei fatti, perchè prendercela con il buon Steinbeck? Allora Jean Calogero si trova in buona compagnia, una compagnia transeuropea, e viene automaticamente assolto dall’aver compiuto soltanto un’operazione puramente evasiva, in piena fuga dal contesto realolitico della sua terra e senza alcuna motivazione culturale. Certo se non fosse passato per gli ateliers di questo e di quello, se da giovane apprendista non avesse potuto spiare i tic e le manie di questo e di quel maestro, scrutandone anche i segreti del mestiere, tutta questa congeria di ardito sperimentalismo gli si sarebbe liquefatta tra le mani e sotto il pennello. Invece è andata bene e Jean Calogero si può permettere il lusso di fare il verso a se stesso come ad esempio in questa ironica, vivacissima invenzione in cui trabocca nella realtà del nitrato d’argento e della lastra, impadronendosi con una irru. zione nervosa di fatti e personaggi della fotografia. E’ questa appunto nel libro la «JEAN C. PRIMA PARTE» dove assistiamo, accesi e stimolati dalle prime battute, al dispiegarsi del teatrino calogeriano in un interstizio ben preciso del tempo ma avulso da tutti gli spazi. Abbiamo tutti riconosciuto non solo il mezzo meccanico e tecnico, l’intervento del pittore su una materia già definita, e non tarderemo ben presto a scoprire quale scelta abbia operato Calogero per definire l’intera avventura. Al primo posto la collocazione storica dei materiali. Le foto impiegate a fare da supporto sono foto d’epoca, ma non soltanto per questo caratterizzate e concluse in limiti prestabiliti; è anche il taglio il gusto dell’immagine, al di là dell’operazione tecnica di adeguamento, che si impastano con il resto. Sicchè queste Venezie ottocentesche in un manniano presentimento di morte questa bianca torta mariage del Sacre Coeur, queste ombrelle aperte a pulviscoli d’acqua dell’Adriatico, i fumosi cieli che si divaricano violentati dal segno Liberty dell’ingegnere Eiffel anche qui il Ballo Excelsior appartengono non soltanto al gioco inconsapevolmente raffinato ma anche alla verità più intima del pittore. Gli hanno cioè fornito un approdo a quella sua talvolta ingovernabile navicella, perpetuamente sballottata dai venti dell’entusiasmo e della depressione, dalle suggestioni degli accadimenti nell’evoluzione delle arti e dalla repulsione che ne consegue. Ma questo è tipico, conseguente, proprio (consolantemente proprio, si direbbe) dei nevrotici destini d’artista. In questa prima parte del documento, avvalendoci appunto di pretesti non solo iconografici ma di letture per così dire subacquee nell’indagine a carico del Nostro, riconosciamo subito le citre, i contrassegni, il sigillo che non viene apposto per siglare una compiutezza di discorso ma, se mai, a sottolinearne la perpetua vicissitudine. La sigla personaggio, come dire la maschera protagonista è il bizzarro animale marino ma anche pesce d’aria che, nella sua aguzza, armata ma anche innocente e deatigata insolenza va a significare l’ulissismo, l’inquieto remigare della coscienza di Calogero. Questi aerei squali, quando perdono la bonomia, assumono di colpo l’incedere minaccioso dei tetri dirigibili del Conte Zeppelin; ne risulta la rappresentazione di un mondo grottesco e drammatico che è ad un pelo dal volgere al tragico, solo che quei pesci d’aria dilatino sguardi medusei e tracimino antenne, diventando mostri. Nella prima struggente situazione (foto con intervento n. 1) incontro ad un mare fisso ed immobile, come nella pittura dei primitivi ed anche in questo punto della situazione l’elemento è pura fotografia un vascello estremamente romantico, nel suo fasciame incrostato di memorie e calcari marini, è sul punto di salpare; non vi è dubbio che Jean Calogero sia tra i partenti e non tra le macchie anonime in cui si aggrumano i pavidi ed inerti rimasti a terra; semmai Calogero è sulla barchetta a sinistra, stipata da ritardatari ansiosi di raggiungere il vascello prima che sia troppo tardi. Un insieme popoloso e, nonostante ciò, di plastica statuarietà; dimentichiamo che l’ensemble è teatralmente occasionale, che esso è un debito non pagato alla tecnica fotografica e quindi persino casuale. Ma ci sentiamo all’interno di una soluzione squisitamente pittorica e senza nessuno sforzo; senza nessuno sforzo come nelle ottave ariostesche che, all’interno più segreto di un palazzo ferrarese, si dispongono in un cielo vastissimo, profonda galleria a perdita d’occhio quali fossero opere di Giorgione, Masaccio, Mantegna, Paolo Uccello, Tiepolo… La pazzia d’Orlando dipinta da Ariosto aveva già trovato i suoi cantori plastici ancora prima che Messer Ludovico partorisse i suoi fantasmi estensi. Il porto da cui è sul punto di prendere il largo la nave di Jean Calogero appartiene strettamente alla biografia di Jean Calogero; ossia è un porto reale non inventato, è la rada da cui innumerevoli volte questo Jean, togliendo intricati ormeggi, è venuto via per il mondo. Sicchè i Pesci d’aria che lo sorvolano appartengono anch’essi al reale ed al concreto, poichè l’inconcreto semmai affiorerebbe, solo che potessimo osservarle una per una, dalle facce di coloro che restano, nei pigri e nei paurosi.. Il mare, nella pittura di Jean Calogero, è curiosamente lo stesso mare che qualcuno immobilizzò in questo primo documento fotografico; abbiamo detto un mare fisso, sempiternamente lagunare ed allucinato sia che esso attenga alla tradizionale iconografia di Venezia sia che combaci con altre coste, altre isole, altri continenti. Eppure questa fissità, che abbiamo detto primitiva, arcaica va letta in un verso speciale: anzi tutto, proseguendo nell’osservazione dei documenti, esso mare si espande ben oltre le sue ovvie e naturali collocazioni, deborda in terre che sappiamo dannate ad eterne lontananze dagli oceani, come il cuore d’Europa, Parigi e via dicendo, forse proprio in virtù di quei Pesci d’aria disinvoltamente sorvolanti spalti di castelli, la Concorde o il Moulin de la Galette, il Pincio e gli Champs Elisees. Se il mare di Conrad è « fosforescente di moralità » e quello di Stevenson « pregno di destino », il mare di Jean Calogero assomiglia al mare traversato di tutti gli eroi di Daniel De Foe, da Robinson in giù; si tratta cioè di un elemento che pur nella sua dignitosa immobilità risulta puro veicolo di commercio, commercio di cose e di anime, viene reificato a dispetto di qualsiasi carica metaforica e surreale a strumento di traffici. Il matrimonio con il mare, che ossessiona l’infanzia di Calogero, non può essere infatti che lo stesso tipo di sposaliziolleanza quale veniva contratto dai primi suoi indagatori, esploratori fossero essi Fenici, Etruschi o Vichinghi. Non va dimenticato, e qui sgombriamo il terreno dalla possibilità dell’equivoco di vedere il nostro come un produttore di merci lussuose, di una pittura lussuosa priva di motivazioni « sociali » poichè Jean Calogero è un emigrante come gli altri, non va dimenticato che alle spalle di Calogero vi è la necessità di andarsene per non morire, di fuggire per non soffocare. E sono necessità concrete, che se insuperate ed irrisolte uccidono allo stesso modo il bracciante ed il poeta; sicchè ogni Pese d’ariaalogero è un’isola individualista protervamente rivolta all’avventura concreta, non alla dissipazione del capitale; ed il mare non perde in nulla il suo significato di rischio, di pericolo, di morte poichè cadervi dentro è sinonimo di morire o di fallire che è come morire, a non essere buoni nuotatori. Jean Calogero è un buon nuotatore ed anche un buon trasvolatore. Un viaggio, due viaggi tre viaggi… Dal vecchio porto di Acicastello o forse, ancora più indietro, dal tempo della soffitta stipata di oggetti polverosi, relitti del più consueto dei naufragi quello del tempo che passa vale a dire cappelli e manichini, trionfi di penne spiumazzate, marionette disarticolate e maschere, da questo golto della memoria altrui che gli fornisce persino il bagaglio, Calogero intraprende i suoi viaggi. Non a caso le foto che ha scelto per ricostruire questo passato da Airone remoto, da uccello migratore che con piacere smarrisce la rotta consueta e si disperde, si spossa in giri viziosi, non a caso il documento appartiene ad un’epoca, una stagione della fotografa in cui ogni tratto della situazione bloccata sulla lastra trasuda equamente composta romanticheria, deliqui inapparenti, statici drammi. Di volta in volta, a Venezia come a Pisa, a piazza del Popolo come alla Concorde, da Montmartre agli angolosi edifici emergenti da indifferenti palmizi di Los Angeles, al bordo dei grandi quadrifogli autostradali, Jean Calogero depone le sue uova d’avorio, le sue chicche di melassa, le sue bautte di velluto; ed i Pesci d’aria, si travestono da cani d’oro, sdraiati ai piedi di un Etna immobile come Prometeo, prendono sdilinquite forme d’arlecchino, intrecciano caroselli diluendosi in rosari di dame e cavalieri oppure, con imponente trabalzo di specie e non di regno (quello animale, supponendo che di esso si tratti), diventano cavalli. « Da bambino » mi disse una volta Rafael Alberti « volevo essere cavallo ». Non « un » cavallo, si badi, ma « cavallo »….. Come dire, tutti i cavalli. Jean Calogero già Pesce d’aria, passato non indenne dallo studio del nostro massimo pingitore di cavalli Giorgio De Chirico traversatene le Piazze senza avere a che dire con i dinoccolati manichini, non si salva dalla cavallitudine ed ecco il suo inequivocabile Pesce d’aria rampare a prua di una navicella in forma di cavallo. Ma anche in questo gioco della foto d’epoca il pittore paga il suo debito. Di più, lo sconta, poichè cosciente egli stesso di questo dilagante trionfo della fotografia, della fotografia in sè e per sè, documento oppure opera d’arte, firmata da Robert Capa o da Paul Strand ne diffida, prende le distanze ed infine violenta la fotografia stessa con questa scelta opportunisticamente retrò, esorcizzando l’una e l’altra, il documento e l’opera d’arte. Del resto non vi era, non vi è tutt’ora nella pittura di Jean Calogero così come l’abbiamo letta in passato, la propensione al tachismo, la tentazione di cogliere l’attimo fuggente e di «seguire il sistema fotografico dell’impressionismo, come era stato praticato sugli argini della Senna al tempo di Claude Monnet? ». Di questo sperimentare i francesi rimasero allibiti. Come era possibile tradurre tutto ciò, almeno il tentativo era di questa ampiezza, gettando luce a profusione (ma rimane una luce triste, mortuaria, livida bonre malre, come i bagliori di un carro funebre in corsa, vale a dire un mezzogiorno a Catania) sui consacrati Esternoiorno di Francia (per impiegare ancora un gergo abbreviante caro ed utile agli operatori della civiltà dell’immagine) di Seurat, Degas, Manet e Pissaro? Anche gli angolini si illuminavano ma l’insieme rimase tetro, popolato di fantasmi scherzosi metidabondi e macabri. JEAN C. Parte seconda L’avventura fotografica di Jean Calogero è ben altra dell’avventura pittorica di Jean Calogero. Questa la vediamo esaltarsi o spegnersi nell’apparente florealità delle metafore ricche di umori mitologici, delle allegorie sempiterne che si rinnovano ad ogni svoltata di pagina, nella parte del volume che raccoglie diciotto esemplari di questa escursione calogeriana. L’escursione nel mondo di Daguerre e di Nadar si esaurisce qui, ma tale natura episodica non la diminuisce, non ne fuorvia il significato. Vogliamo trovargli un antefatto, un retroterra culturale, un beckground, un blasone, una genealogia, un « pedigree? ». Ebbene l’episodicità in questo senso ci aiuta, ci viene incontro avvantaggiandoci nella sistematicità della ricerca. Pensiamo ad esempio all’impiego della fotografia come fece un certo numero di anni addietro Rauschemberg. Consapevole di costituire un ponte, un crocicchio di paesaggio tra l’espressionismo astratto e la poprt, il pittore americano si buttò a corpo morto alla creazione di combineaintings, impiegandovi i più disparati materiali. E’ soltanto quando la condizione esagitata dell’artista, che molto vuole coinvolgere in questo delirio di crescenza, propende all’organizzazione, allo schema, a più raffinati e simultanei approdi (e che cosa è più simultaneo del « già fatto, veduto, eternato » della fotografia?) che Rauschemberg ricorrendo alla tecnica serigrafica scolla immagini da rotocalco dal loro effimero supporto e le trasferisce imbalsamandole (o reificandole) sulla tela. Su questo sentiero scendono con varie dichiarazioni programmatiche, varie motivazioni anche i nostri Schifano o Rotella (abbandonato anche lui il decollage), il più recente Pistoletto, l’Antoj che frantuma e ricompone ma qui il gioco appartiene all’ optical, Vasarelly e Soto Bertini.. Sono fatti di oggi e forse non saranno fatti di domani. Ad ogni modo appartengono alla totalità _ anche se momentanea della ricerca di questi artisti. Per Calogero è un capitolo che, si intende, spentosi il diver. timento, «stutati» mutuando l’insostituibile siciliano i lumi di scena, calata la tela sul teatrino forse non avrà repliche. Così credo più giusto, anche per la maggior simiglianza tecnica rifarmi ai progettireativi dell’impaccatore Christo. L’impaccatore Christo non arriva a questi suoi sterminati avvolgimenti e coinvolgimenti abbandonandosi al casuale ed, appunto, al tachismo? Del resto l’impegno dell’intervento è così imponente e costoso di fatica e di denaro che un progetto si rende necessario come per costruire l’edificio di una banca. Così Christo, saettando nervosamente qua e là con il suo fisico di missionario perdutosi nella giungla, interviene con la matita grassaianca sulle foto del paesaggio o del monumento e su queste foto già scatta il momento creativo che poi nella realtà si traduce in quel bendare il mondo, i monumenti naturali e quelli artificiali col risultato e l’utilità estetica che sappiamo. Bene, gli interventi di Calogero sono gratuiti a tutti gli etfetti, non servono alcuna legge di reciprocità economica; probabilmente servono soprattutto a Jean Calogero per dissimulare in un’allegria apparente il sordo rincorrersi di alcuni tarli nevrotici che albergano nella sua inquietudine isolana. Nessun sospetto di volgersi magari in futuro, come ha fatto appunto Rauschemberg, a quell’arte tecnologica che accomuna artisti ed ingegneri. L’unico ingegnere che ha dovuto fare i conti con Calogero, intatto nel documento fotografico anche raffinatamente flou come piace riscontrare nelle foto del passato, è l’ingegnere Eiffel sopra menzionato. Secondo Dürer « artista è chi, dentro di se, è pieno di immagini » e aggiunge Gombrich, ben più praticamente è capace di realizzare le sue idee con i mezzi materiali di cui dispone. Andrea del Sarto, il pittore impeccabile, soffriva per la sua troppa facilità: come dire il virtuosismo che diventa un ostacolo. Non credo che Jean Calogero abbia simili turbamenti; ma la sua rottura dei tempi, il suo momentaneo dilagare in fotografia o in mitologia appartiene allo stesso libero spirito della creatività, una specie di permissività nell’arte che Robert Browning quasi un secolo addietro, sempre a proposito di Andrea del Sarto interpretò così: At any rate, ‘tis easy, all of it! No sketches first, no studies, that’s long past! Calogero, decoratore a quindici anni, pittore tecnicamente maturo a venti. meglio che se avesse trascorso anni in accademia è tra l’altro un abilissimo tecnico, spadroneggia tra i segreti del suo mestiere; sicchè anche in questo, pensando cioè alla tela, ai colori, all’impiego calcolato di essi, persino a ciò che accadrà di loro nel tempo, fa parte del giocorte di Calogero e ne avvalorerà il risultato. Come dire che le diciotto litografie colorate ma anche, come no? anche le scherzevoli ma non tanto avventure dei Pesci d’aria lungo le ombre, i grigi, i neri che il nitrato d’argento ha imprigionato sono il risultato di questa inquieta coscienza d’artista che però si soddista nell’ineccepibile impiego della tecnica. Da ciò le escursioni negli stili, nello spazio, nel tempo…. * Comunque è così facile! / Niente abbozzi, prima, niente studi, tutte cose superate da tempo! I quattro cowoys di Rapid City, la Maison rococò di Toronto, il gotico castelloanile in fondo al borbonico stradone di Primosole, sono tutti preziosi argomenti a discarico, sempre che vi sia qualcuno bisognoso di tali attestazioni. Stili, spazio, tempo. E sogno. Sul sogno il discorso era il più facile, il più spontaneo, il più emergente partendo da quel surrealismo mediterraneo buttato lì, addosso al Nostro, da Leonardo Sciascia. Pagando anche il debito all’onirismo, scaduta ogni occasione di freudiana citazione poiché superata dai tempi, dalla scienza, dalla moda, almeno così mi dicono (ben altra sarebbe stata una conversazione su Jean Calogero avendo per interlocutore Charcot, per esempio…). ci soccorre Artemidoro di Daldi con la sua INTEPRETATIONE DE’ SOGNI del secondo secolo dell’era cristiana. Al paragrafo 10 del Liber Primus scrive Artemidoro, rivolgendosi probabilmente al nostro Jean senza saperlo: «Profittevole sarà, non solo profittevole ma anche necessario, che sappia l’interprete de’ sogni, chi sia quello che ha sognato, & di che maneggio sia egli, in qual maniera sia nato, qual possessione egli abbia, et qual sia la sua statura di corpo & di mente e di quale età. Perchè quel picciolo aggiungere, o minuire, variarsi l’avvenimento». Essendo noi ormai così addottorati e cogniti sul conto di Jean Calogero sappiamo come, negli interventi sulle foto o nelle diciotto litografie, il nostro Jean abbia « ajunto o minuito » sicchè « variarsi l’avvenimento ». E di quel variare, in un modo o nell’altro, è fatta da cima a fondo la storia dell’arte. Le sue piccole e le sue grandi avventure.