Patrizia Calogero
Jean Calogero: tanti ne hanno parlato, ne parleranno, lo ammirano. Altri lo contestano: l’artista, il surrealista … Per me, soltanto mio padre.
E una fortuna “vivere” un artista. Da adulta, oggi, comprendo l’eccezionalità di quello che, da piccola, consideravo normalità.
Io penso che artista non sia un modo di essere: artisti si nasce.
Sin da bambino mio padre aveva evidenziato una particolare inclinazione per il disegno e ne era attirato in maniera incredibile, mi diceva. Sentiva il bisogno di imprimere (indistintamente con gessetti colorati o carbone) e trasferire la sua arte ovunque capitasse: sui muri, per terra, sui quaderni scolastici, su pezzi di lenzuola rubati alla mamma. Invece di andare a giocare per le strade con i suoi coetanei, come tutti i bambini del mondo, preferiva isolarsi e dare sfogo alle sue infantili fantasie, su pezzi di carta trovati per strada e dava vita a cose meravigliose che solo lui poteva sentire e vedere perché nascevano da dentro sé.
La sua famiglia d’origine era molto povera e tutti i membri cercavano di contribuire ai bisogni facendo ogni tipo di lavoro – anche umile – ma con onestà e dignità.
A poco più di sei anni papà iniziò a lavorare da un calzolaio. Il suo compito era quello di raccogliere tutti i chiodi che gli altri lavoranti facevano cadere per terra. Era un lavoro monotono che gli spezzava la schiena a furia di stare sempre chinato, ma la sua grande soddisfazione era quella di consegnare alla madre le cinque lire della sua umile paga. Questo lavoro non durò molto perché il principale lo sorprese mentre, accovacciato sulle gambe e con i chiodi raccolti in mano, creava disegnini sul pavimento: fu subito licenziato. Fece tanti altri lavori ma aveva sempre nel cuore la sua vera passione: l’arte.
La mattina andava a scuola e il pomeriggio al lavoro, ma appena la sera tornava a casa, si isolava da tutto e da tutti e iniziava a disegnare permettendo alla sua fantasia di materializzarsi in forme e colori. Solo in quei momenti si sentiva veramente appagato. “Quegli istanti erano la mia vita” mi raccontava “e la mia vita era aspettare quegli istanti”. Intanto gli anni passavano e la sua sete per la pittura che cresceva sempre più gli fece capire che era giunto il momento di fare qualcosa. Si rivolse ad una illustre famiglia catanese che lo mandò con una lettera di presentazione da un noto pittore catanese, artista molto valido e grande uomo: Roberto Rimini.
Papà trovò in lui non solo un maestro e un amico affettuoso ma anche il padre che non aveva avuto. Con il suo aiuto fece notevoli progressi e incoraggiato da lui si iscrisse al Liceo Artistico di Catania e cominciò a frequentarlo fin quando – proprio quando pensava che le sue sofferenze fossero finite – scoppiò la seconda guerra mondiale che gli fece interrompere gli studi. Furono anni terribili e molte persone come lui, soffrirono la fame, la sete, umiliazioni, freddo, miseria.
Queste sue ferite morali non si cicatrizzarono mai.
Grazie a Dio mio padre uscì illeso dalla guerra e nel 47 e con il coraggio di chi non ha niente da perdere e l’audacia della gioventù, decise di andare a Parigi. Non aveva soldi, non conosceva la lingua, ma aveva la testardaggine di un leone e voleva anzi doveva, a tutti i costi – realizzare il suo ideale artistico. I primi anni furono duri: a Parigi trionfavano i grandi maestri della pittura mondiale. Che speranze poteva avere un giovane ventenne catanese in quella metropoli? Ma si sa, quando si è giovani, si è ricchi dentro. Con grande volontà volle sfruttare questa dote e anche il destino sembrò essere diventato suo alleato quando, al consolato italiano, conobbe Monsieur Cabeccia, un gentile signore bolognese che non solo credette subito in lui e nel suo talento ma gli diede un cospicuo aiuto finanziario e lo presentò al pittore Gino Severini
Con orgoglio partecipò ad una collettiva dal titolo “Pittori italiani a Parigi” organizzata dal Consolato italiano e in questa occasione non solo si rese conto – con legittima soddisfazione che i suoi dipinti rivelavano una loro personalità e originalità e venivano notati dai visitatori più curiosi ma ebbe la possibilità di conoscere il grande Filippo De Pisis e lo scrittore Pitigrilli.
Intraprese quindi rapporti lavorativi con una galleria parigina che operava anche negli Stati Uniti. Il miracolo si stava compiendo: ciò che da bambino aveva sempre desiderato stava per essere esaudito. Si stava affermando nel grande mondo delParte! Si legò di gratificante amicizia con personalità illustri: Raul Dufy, Maurice Utrillo, Fernand Leger.
Nel 1951 Bing Crosby, affascinato dallo stile, dai colori unici e dalla sua esplodente ed incisiva personalità, comprò presso la Galleria Madsen di Parigi, parecchi suoi dipinti e con grandeentusiasmo promise che gli avrebbe organizzato mostre a New York e Los Angeles.
Mantenne la promessa e nel 1952 mio padre parti da Parigi con un invidiabile contratto per gli USA e con le sue mostre ebbe un successo incredibile. Gary Cooper, Judy Garland, Robert Mitchum, Gregory Peck erano diventati clienti ed ammiratori delle sue opere e volevano nelle loro collezioni private almeno un suo dipinto! Il soggiorno a Los Angeles è sempre nella sua memoria come il periodo più bello della sua vita.
Gli anni a seguire furono una continua ascesa verso il successo: era ormai diventato un nome” nel mondo dell’arte e realizzò mostre in quasi ogni parte del mondo.
Parigi restò sempre la sua seconda patria e li, ai piedi di Mon(matre, al numero il di Boulevard de Clichy fissò il suo atelier acquistando lo studio che era stato di Degas. I mercanti con cui lavorava gli diedero il nome francese jean.
Nel 1958 la città di Parigi lo premiò con la Medaglia d’argento, massimo riconoscimento ad un artista vivente che era già stato dato ad Utrillo, Braque, Dufy, Derain, Picasso, e nel 1959 venne inserito nel famoso dizionario dell’arte Benezit.
Mio padre è stato un uomo fortunato e per me è la dimostrazione che la vita può cambiare in meglio: è nato povero in una famiglia troppo impegnata a sopravvivere per porergli dare quell’amore di cui il suo animo sensibile bisognava. E morto sereno, appagato, felice nello spirito e nell’anima, circondato e pieno del nostro amore. Era il suo karma. Ha inseguito i suoi sogni e li ha fatti diventare realtà.
Non è stato un padre presente e ciò nonostante la sua presenza-assenza ha reso unica la vita di mio fratello e mia colorandola di quella magia che gli altri “vivono” ammirando le sue opere. Lui c’era sempre: la sua presenza si respirava tra l’odore acre della vernice e dei colori che aleggiava per casa, o nella magia della musica classica ad alto volume che proveniva dal suo studio. C’era “surrealismo” nelle storie fantastiche che ci raccontava e che narravano di cavalieri, cavalli alati, pesci volanti, pupi e principesse bellissime che nascondevano sentimenti ed emozioni dietro ad una maschera. Egli – grande uomo – deliziava noi con giochi di prestigio e con maestria, abilità e magia faceva comparire davanti ai nostri occhi increduli di bambini, nelle sue mani – sempre un po’ sporche di colore – oggetti presi dal televisore. Ha voluto sempre donarci quella serenità a lui negata, viziandoci, coccolandoci, facendoci credere all’esistenza di una realtà parallela dove tutto è possibile: l’immaginazione. C’erano poi i silenzi da osservare quando ci riunivamo a tavola per il pranzo. Papà saliva dal suo studio, sedeva con noi ma, inizialmente, stava in silenzio guardando nel vuoto, verso unpunto fisso. La mamma diceva che non dovevamo disturbarlo con domande o altro, perché lui era ancora nel “suo mondo”. In effetti doveva essere così, perché io, che gli stavo seduta di fronte e potevo osservare attenta ogni espressione del suo viso, lo vedevo lontano da noi. Mi sono sempre chiesta dove esattamente iniziava la vita e dove il sogno, quale fosse la sottile linea di confine tra le sue fantasie e noi …
Mio padre era un uomo colto, leggeva tanto, libri d’arte, testi in francese sulla reincarnazione, sulla filosofia indiana. A mio parere egli è riuscito a liberarsi da tante schiaviti e condizionamenti mentali per andare oltre il materiale. Era una persona semplice, schiva, metodica, organizzata, abitudinaria; trovava in piccole cose quotidiane – come andare in piazza Castello a chiacchierare con gente semplice o portare molliche per far mangiare i piccioni – la sua felicità.
Un pomeriggio, pochi anni prima che morisse, andai a cercarlo in piazza perché dovevo dirgli una cosa. Lo trovai appisolato su di una panchina al sole, con in mano la sua busta piena di pane spezzettato e tanti piccioni accanto. Quanto l’ho adorato in quel momento. Mi ha trasmesso una serenità che non dimenticherò mai.
Mio padre amava l’ordine ma, a modo suo. Potrei definirlo un “caos calmo”. Seminava schizzi, bozzetti dei suoi quadri, appunti di ogni genere, sulla moquette dello studio. Noi dovevamo seguire per le stanze un percorso attento prima di arrivare a lui e al suo cavalletto. Nessuno doveva pulire o mettere ordine li dentro: avrebbe alterato un equilibrio perfetto. Se non lo conoscevi mio padre dava l’impressione di essere introverso, musone anche un po’ distaccato e snob. In realtà era un burlone, con la battuta pronta, affabile con chi conosceva bene. Non capivi mai se quando parlava era serio o stesse scherzando.
Creare correnti di energia emozionale attorno al campo magnetico umano deve corrispondere necessariamente alle attitudini mentali, emozionali e fisiche di ognuno di noi. Ogni persona riceverà solamente gli impulsi corrispondenti alla propria sensibilità e capterà gli impulsi che corrispondono al suo grado di evoluzione interiore. Io penso che un’opera d’arte cambi in base a chi l’osserva. È lo spazio assoluto e infinito miracolosamente contenuto dentro un pezzo liscio di tela, una sorta di traduzione simultanea nel linguaggio delle emozioni. Gli artisti sono esseri puri nell’anima, pronti a percepire e donare ogni stimolo pervenuto nella loro mente, a captare e trasporre su tela la realtà che ci circonda e che noi non osserviamo più perché distratti, disorientati, assenti.
Mio padre mi ha insegnato a capire tutto ciò.