Nicolò D'Alessandro

Uno degli elementi poco sondati nella vasta letteratura e nella fortuna critica del Maestro Jean Calogero è sicuramente la componente ironica dei suoi temi sempre diversi e sempre uguali tra l’assurdo e il quotidiano. Attua un gioco delle parti, un ribaltamento del conosciuto, un rovesciamento del comune senso logico tra il naturale e l’artificiale. L’aspetto ironico, preminente elemento nella fenomenologia dell’arte contemporanea, diventa linguaggio paradossale quando Calogero affronta l’assunto metafisico della realtà.
Raggela la scena rendendola disponibile alle interpretazioni più disparate. Lo stravolgimento di senso,giocato tra la fiaba e il surreale,conduce allo spiazzamento della realtà che è affidata all’uso degli inventati manichini, dei pesci dirigibili, dei castelli che portano al racconto divertito di un mondo contraddittorio assolutamente privo di certezze,alla rappresentazione del vero oltre il reale,alla rinuncia deliberata di significati intellettualizzanti. Voglio dire di atmosfera ironica e di sottile soffusa comicità poiché alla sua pittura, spazio di continua reinvenzione iterativa, attribuisco un valore di onestà intellettuale, di svincolo consapevole del conosciuto, riconoscendone l’assurdo delle rappresentazioni, le contraddizioni palesi della civiltà attraverso l’elusione, l’annullamento dei significati allusivi alla realtà. Mette a nudo le nostre illusioni borghesi.
Non esistono sentimenti o passioni nelle sue rappresentazioni, ne atteggiamenti morali. Rivendica con la sua arte il diritto di stare al mondo, di essere nel mondo da un osservatorio privilegiato, conscio del privilegio del proprio ruolo d’artista in un non luogo della pittura reinventata. Forse vuole convincerci che contro i luoghi comuni esiste, attraverso il mezzo pittorico, il senso della poesia come salvezza, come riscatto.
Nel 2010 ho curato una monografia di Jean Calogero. In quell’occasione, osservando con attenzione le opere, ho avuto modo di approfondire una vicenda d’arte lunga più di mezzo secolo per stabilire un tracciato che potesse restituire nella costruzione del libro la coerenza del pittore. Nel corso della lunga e approfondita ricognizione, sin dalle prime prove parigine che tanto hanno interessato il pubblico internazionale, mi sono convinto che l’artista si sia sempre rivolto al mondo infantile, in particolare ai figli Patrizia e Massimiliano, ispiratori della sua visione poetica dell’esistenza per stupirli, per accompagnarli con il linguaggio della fantasia e della fiaba nel cammino della vita attraverso il suo lavoro di pittore. Artista libero, gioca con loro. Gioca, sogna e induce gli altri a sognare.

Dopo il lungo soggiorno parigino ricco di successi e riconoscimenti, le numerose esposizioni in giro per il mondo, il grande interesse del mercato, ritorna nella sua Catania e mantiene il suo studio dividendosi tra la Sicilia e Parigi. Le bamboline degli anni cinquanta, le figure circensi ed irreali, i teloni, le strutture in legno cariche di maschere, gli ombrellini teatralizzano le invenzioni, che qualcuno ha definito, surreali d’influenza impressionista. Capovolge il senso realistico dell’immagine sostituendolo con il suo fantasma, la sua silouette. Ci troviamo da sempre davanti al lavoro di Jean Calogero sullo stupore perduto. Popolano dentro le scenografiche quinte del suo teatro personale, storie d’incanto da inventare. Le figure stilizzate creano luminose atmosfere eccessive, coloratissime. I valori timbrici esaltano l’impianto disegnativo. Sono pronte a recitare la parte loro assegnata in un’atmosfera fiabesca con un gioco voluto tra realtà e finzione. Sono flussi di pensieri trasformati in cavalli e ruote. Disegni senza ombre sono i cavalli e le damine-manichini con i grandi cappelli che passeggiano per le strade di Catania e di Parigi. Popolano, invadono le Città, diventano protagonisti di un mondo onirico, a volte velato di malinconia ma, soprattutto, diventano i soggetti che non sanno di essere osservati. C’è sempre aria di festa. Tra lumi a petrolio, uova e conchiglie. Lotte di cavalieri paladini e pesci dirigibili, torri e castelli in grandi acquari degli anni novanta, il suo intento è stupire in una affabulante teoria di figure che si spostano da un quadro ad un altro. Jean Calogero è un prolifico e disinvolto narratore che descrive un’unica storia, un lungo racconto iterativo sempre diverso e sempre uguale. La sua vicenda personale, lo sradicamento dal luogo della sua formazione e la conquista di Parigi incidono profondamente sul suo ruolo di abile inventore.

Chi scrive questa nota nel 1969, ventiseienne timido pittore di belle speranze, nella vecchia sede della Galleria La Robinia, di via Notarbartolo a Palermo, ha conosciuto per la prima volta l’opera del pittore Jean Calogero rimanendone affascinato. Conserva nel suo archivio il catalogo di quella mostra con la nota di Leonardo Sciascia.“Direi, ecco, – scrive – che Calogero è un surrealista quale poteva nascere in Sicilia; uno che non opera “l’epanchement du rêve dans la vie réelle”, ma totalmente sfugge alla vita reale.
Calogero sogna un paradiso perduto, un mondo di innocenza in cui i sensi dell’uomo soltanto conoscono e godono il dono dei frutti”. Rivelatori sono i numerosi disegni intimi della Sua Catania, i familiari soggetti tanto amati dall’artista come lo studio sulla festa di sant’Agata, il teatro Massimo Bellini, Castello Ursino, la fontana dell’Amenano, piazza Stesicoro, villa Bellini, il Porto, la Stazione, piazza Duomo e u Liotru, Ognina. Ma Catania è anche Venezia, il suo contesto lagunare e naturalmente Parigi della quale coglie il colore squillante, gridato. Ricostruisce Parigi come la città dei suoi sogni, la legge in chiave fantastica. Non è casuale che nei cieli dipinti della sua amata città riecheggiano i cieli plumbei di Parigi.E tutto riconduce alla sua Acicastello, luogo dal quale non si è mai allontanato.
Il disegno
Il disegno moderno rivela e introduce ai grandi stravolgimenti della pittura e della sensibilità estetica contemporanea. Un esempio per tutti è ciò che si evince nel disegno rivoluzionario di Picasso. Essenzialità e sintesi ne sono la struttura di base. Io, che di disegno da sempre mi nutro, non posso non fare accostamenti utili per collocare, storicamente parlando, il suo modo di disegnare che, lo ripeto, è il supporto indispensabile di tutta la sua pittura. Vitale l’esperienza francese legata allo stupore dell’artista catanese in cerca di fortuna, come tanti altri artisti provenienti da ogni parte del mondo attratti dalla cosiddetta “Scuola di Parigi”.Modigliani, Chagall, Lipchitz, Van Dongen, Foujita, Soutine e molti altri sono accomunati da una tensione immaginativa, con esiti diversi, in linea con lo spirito di avventura e la ricerca della propria cifra artistica, l’originalità della ricerca di forme espressive fortemente individuali, coerenti con il sogno di libertà che li aveva condotti a Parigi. Anche la scelta di Calogero non può che esprimere questa tensione che esploderà in pochi anni in una cifra pittorica personale. Penso ancora, per inevitabile associazione d’idee, tra le vicende culturali del nostro paese, ai disegnatori italiani, ai disegni di Felice Carena, Ardengo Soffici, di Trento Longaretti o di Pio Semeghini, Mario Sironi, ed altri. L’esperienza francese lo porta ad assimilare questa voglia di superare le proprie origini siciliane e proiettarsi consapevolmente in un clima figurativo internazionale. L’artista catanese ci riesce, mescolando generi, tecniche e sogni in sintonia con le arti figurative del tempo parigino.
Per sostenere ciò che affermo credo sia necessario anche un breve accenno sul significato del disegno in quanto linguaggio autonomo. Il disegno è la “probità dell’arte” diceva Ingres e Hokusai, il pazzo di disegno, diceva che il disegno è la dignità dell’uomo. È soprattutto “strumento di conoscenza” e in quanto strumento lo si deve saper usare. Insomma, per dirla con Bruno Caruso, il “disegno” è “saper disegnare”. E Jean Calogero sapeva disegnare, sapeva con la matita indagatrice, di svelare ciò che gli interessava. E nei quadri ad olio, nel suo territorio atemporale, composti da stesure sapienti di colore disciplina le ampie pennellate a spatola in piani sovrapposti e le esalta con il reticolo di segni. I valori timbrici rafforzano l’impianto disegnativo. Le architetture ne sono una prova. Reticoli, ragnatele di segni sostengono ogni soggetto. Manichini, pesci, torri e palazzi. Se negli impianti pittorici togliamo le trame grafiche, il quadro appare visibilmente monco.È destinato a percorrere altri destini.
Accanto alle opere ad olio già conosciute, grazie alle scelte di Patrizia Calogero e di Luigi Nicolosi che restituiscono con impegno e dedizione alla Città la memoria di un vero artista, credo sia importante far notare che i disegni e gli schizzi costituiscono l’aspetto fondante, il nucleo centrale del suo lavoro. Al di là della suggestione del colore, il disegno di Jean Calogero determina l’impianto compositivo. Traduce con esso la sua formazione accademica, il suo modo di prendere appunti e di rappresentare e,soprattutto,la rapidità del tratto. In un dialogo personale tra l’idea e la sua traduzione in segno.
Ogni disegno riesce a suggerire l’intera forma con la rappresentazione sintetica di una parte di essa. Nel duplice aspetto di opera in se, nel valore intimo e primordiale del disegno, autonomamente espresso e l’altra preparatoria rivolta all’opera “finita” del quadro. Tanto vero è ciò che si nota in molti disegni, nei piccoli schizzi, negli appunti, una cornicetta grigia, ad inchiostro diluito, che concentra e costringe il soggetto dentro confini ben definiti che riportano all’idea del quadro.

Sarebbe auspicabile una lettura completa dell’intera opera grafica del Maestro catanese per capire meglio le esperienze fondamentali che compiutamente metaforizzano, negli anni quaranta e cinquanta, quelle affinità di segno grafico riconducibili allo spirito del tempo in Sicilia. Penso ad Alfonso Amorelli, Gino Morici, Totò Bonanno a Palermo, Nunzio Sciavarrello e Sebastiano Milluzzo a Catania che portarono avanti nelle loro ricerche, se pur con esiti diversi, il denominatore comune dell’essenzialità del segno e la sua sintesi rappresentativa.
Credo che la chiave interpretativa si possa trovare proprio nel suo modo di disegnare a matita, nel segno calcato e deciso, a volte fluido e unito, in quell’appuntare con scioltezza le forme incorporate e immaginate. Semplici linee di contorno,spesso sovrapposte e di differente spessore, continue e fluide che accennano a zone d’ombra, che suggeriscono volumi. La sua padronanza che si traduce poi, figurativamente parlando, nel repertorio figurativo personale e irripetibile dei modelli osservati, adottati,studiati e rifatti con una esemplare caparbietà che lo rende autore di un unico immenso quadro. Tutto è sorprendentemente collegato in una storia esemplare che è sempre la stessa.
Non possiamo che immaginarlo giorno dopo giorno di fronte al cavalletto a costruire scene d’incanto, favole per bambini che affascinano anche gli adulti, deprivati nel tempo che scorre della magia dell’infanzia, poiché immalinconiti dal vivere quotidiano che allontana questa irripetibile stagione della vita. Quella breve stagione dello stupore e dell’attesa. Quella stagione vissuta come un tempo al quale si vorrebbe essere sempre leali, come una sorta di “ideale del sé” integro e incorrotto. Ed è qui, in questo spazio mentale, che agisce il sogno, la magia della fantasia attraverso il disegno che in Calogero diventa il supporto fondante che determinerà la tela dipinta.
La sua figurazione segnica è sostenuta da un ritmo nervoso e incalzante, quasi da impianto scultoreo, di chiara memoria e matrice espressionista. I disegni, che risultano essere quasi un diario intimo,(L’opera d’arte è sempre una confessione, diceva Umberto Saba)restituiscono l’idea di una preparazione al soggetto che successivamente costituirà l’ordito coloristico. L’artista rispetta l’impulso di partenza dell’idea che diventa immagine acquisita da una lungo esercizio immaginativo. Sembra utile osservare il valore privato dello schizzo, nella prima fase ideativa, le sue aspirazioni immaginative. Ed è proprio nel disegno che si manifesta la sua autenticità e spontanea incisività. Il colore viene decisamente molto dopo.“Il colore non si vede, ma si sente” amava dire Calogero.
La matita con segni nervosi e sicuri scorre veloce sulla carta e impone la forma osservata con l’immediatezza del grande disegnatore qual era. Ci troviamo di fronte a schizzi essenziali che raccontano con immediatezza l’idea. I suoi segni sono gli insistiti particolari, gli improvvisi agguati. Segni che animano freneticamente le superfici, vivacizzano le forme siano esse oggetti o esseri viventi. Sono le tracce sommarie di una autoriflessiva appropriazione del racconto inseguito .La dovizia dei segni, delle pennellate sempre diverse e sempre uguali costituiscono il tessuto narrativo del grande visionario. Le intuizioni che diventeranno le sue note composizioni immaginifiche. Il tratto è sempre pulito ed essenziale, senza ripensamenti di sorta, con scioltezza ed immediatezza evidenzia l’idea e soprattutto l’impianto che si tradurrà nei suoi dipinti. Se sostituiamo al tratto veloce della matita la punta del pennello, abbiamo modo di notare che gli abili tocchi delle damine, dei pesci volanti, dei cavalli e dei cavalieri sono fortemente indicati dal disegno. Soltanto la pennellata larga appartiene alle grandi superfici, alle stesure dei cieli delle piazze. Ed è così che l’artista con poeticità racconta il sogno, la percezione del mondo, il suo irripetibile immaginario onirico.