Leonardo Sciascia
Palermo, Aprile 1970
Nella Sicilia occidentale, e specialmente nella provincia di Agrigento, Calogero è nome: ci sono sette San Calogero dalla faccia nera e dalla barba bianca venerati in altrettanti paesi; sette fratelli eremiti, secondo la leggenda. Nella Sicilia orientale Calogero è invece cognome. Il pittore Calogero, della Sicilia orientale, ha eliminato il possibile equivoco traducendo in francese il suo nome di battesimo. Jean Calogero: inequivocabilmente, Calogero è cognome. Ma traducendo Giovanni in Jean il pittore ha voluto, più che eliminare un equivoco, alludere a un suo secondo battesimo: il battesimo della pittura, che riceve a Parigi nel primo dopoguerra.
Nato a Catania nel 1922, Calogero scappa a Parigi nel 1947. Ci resterà per quasi vent’anni. Lasciando la Sicilia, è un giovane che vuol fare il pittore. Quando torna, e sceglie come sua residenza Aci Castello, una casa silenziosa e ridente al margine del paese, è già un pittore. Ha un mondo tutto suo, fantastico estroso surreale; e un modo tutto suo di renderlo in pittura, un suo stile. Ed ha anche un mercato. Perché torna in Sicilia, in quel piccolo paese verghiano che si chiama Acicastello – bellissimo, non c’è che dire, sereno, pieno di luce, di colore; ma isolato, sperduto? Calogero dice “per la salute”. Ma credo che nella parola salute lui includa anche quella dell’anima: il ritrovare cioè la giusta misura della vita, il giusto senso delle cose, dei rapporti umani, del lavoro. Si può vivere ad Acicastello, dopo vent’anni di vita a Parigi, soltanto perché ad Acicastello l’aria è mite e pulita, perché c’è il sole, perché non ci sono rumori? Credo non bastino queste cose, ci vuole qualcosa di più; qualcosa, direi, di “religioso”. Una religiosità” quale”, appunto, nei personaggi del Verga. Proprio a due passi da dove sta Calogero, una signora del nord diceva a Giovanni Verga: “Non capisco come si possa viver qui tutta la vita”. E Verga rispondeva: “Vi racconterò..”. E raccontava I Malavoglia.
Ma nella pittura di Calogero non c’è niente di verghiano, niente dei Malavoglia, niente persino del paesaggio che ha quotidianamente sotto gli occhi. Il paesaggio di Calogero è tutto inventato; ma inventato come in sogno, immerso nel sogno, con sovrapposizioni e trasparenze di sogno. Città lunari ed acquatiche, fatte di cattedrali, castelli e palazzi dogali, torri, balaustrate barocche, statue, obelischi e fontane, fanno da sfondo a un carnevale immobile e incantato. Tutto si è fermato come nell’occhio della Medusa, ha preso la consistenza e il freddo splendore dello smalto (“venga Medusa, e lo farem di smalto”). I volti sono maschere; e le maschere sono dei volti caduti, recisi come fiori, appassiti in una espressione di stupore. Soltanto i frutti sono vivi, misteriosamente immuni dall’incantesimo. E sarebbe da vedere che cosa significano i frutti, nel sogno di Calogero: il paradiso della terra senza l’uomo, la vittoria della natura sull’uomo, sul carnevale della vita umana, sulle conquiste e le architetture dell’uomo? Certo è che questa pittura, questo mondo di Calogero, ha una cabala segreta, dei significati. Ricorreremo alla cabala del vecchio giuoco del lotto, per spiegarci, o a quella del dottor Freud. Ma forse è meglio lasciar perdere i significati e goderci la pittura: perché è una pittura da godere, che a Calogero non pone problemi – e perché dovrebbe porli a noi?
Comunque, una definizione di questa pittura bisogna tentarla, qualche collegamento bisogna cercarlo. Direi, ecco che Calogero è un surrealista quale poteva nascere in Sicilia: uno che non opera “l’épanchement du rêve dan la vie réelle”, ma totalmente sfugge alla vita reale. Per certi elementi può far pensare a Delvaux: lo stupore da statue dissepolte delle donne, le lampade (lumi a petrolio ottocenteschi) che si inseriscono nelle prospettive e nei piani – ma spenti e lasciati lì, come a significare cin ormai les vierges sages non sono più sagge e che la voie sacrée è ormai dissacrata ed oscura. Solo che in Delvaux la dissacrazione e la follia è tutta nei sensi e nel sesso, mentre Caiogero appunto dai sensi e dal sesso vuole liberarsi: come chi troppo vi è involto e agitato – come quei due personaggi del Bell’Antonio di Brancati che nell’ultima pagina del libro scoppiano a piangere sulla loro diversa miseria di essere uomini, sul loro diverso dramma di fronte alla donna. Nato a Catania, là dove la città intera fa da coro al dramma del Bell’ Antonio, là dove con terribile crescendo il pensare alla donna è come l’implacabile discesa del magma etneo, Calogero sogna un paradiso perduto, un mondo di innocenza in cui i sensi dell’uomo soltanto conoscono e godono il dono dei frutti.