Lavinia Spalanca

All’età di 25 anni, dopo una breve parentesi romana in compagnia di Guttuso, il pittore catanese Jean Calogero si trasferisce a Parigi, dove riceve il battesimo dell’arte assumendo, in seguito a numerosi riconoscimenti, il definitivo nome di Jean Calogero. Interiorizzando la lezione impressionista e le ricerche avanguardiste, l’artista matura la sua ricerca espressiva dando prova di un’assoluta originalità, nella trasfigurazione estetica del proprio vissuto esistenziale. Gli anni trascorsi all’estero sono dunque fondamentali per la bildung del pittore, che a partire dagli anni Cinquanta darà forma al suo immaginario: un carnevale solo cromaticamente gioioso, coi suoi enfants musiciens invasi da una miriade d’oggetti colorati, dalle trombette ai copricapo di cartapesta, dalle biglie di cristallo agli acquari popolati di pesci informi; un teatro cristallizzato dal tempo perché «se tutto è veramente cambiato» – come scrive il conterraneo Vitaliano Brancati – «nel carnevale sembra che tutto si ritrovi e torni al punto di partenza». […]
È in virtù dello slancio immaginativo che il pittore percepisce un’affinità con la poetica del Surrealismo: «Io sono surrealista perché amo i sogni»; il suo linguaggio esoterico, per iniziati, presuppone infatti una concezione dell’arte quale «riflesso di una realtà parallela» a quella visibile, e pertantocome ricerca dell’invisibile, e l’ideale dell’artista come un visionario capace di «captare eventi particolari del futuro ma anche del passato». Lo si evince anche dai suoi dipinti anni ’60: fantasmagorie dai colori smaltati, luminosi squarci cittadini, nature morte affacciate su marine, palazzi incantati, metafisiche parate di cavalieri erranti, e poi il bric à brac degli oggetti, cabaret di frutta frammisti a maschere, affusolati lumi a petrolio, vasi di fiori. E naturalmente soggetti mitologici, frutto dell’identità mediterranea dell’autore, ma anche soggetti cavallereschi ispirati all’Ariosto, come attestano i suoi paladini duellanti pronti a deflagrare, o «le donne» e «i cavallier» che sembrano affatturati dal mago Atlante. Negli anni a seguire l’immaginazione del pittore non si arresta, ma si alleggerisce mediante l’uso sempre più astrattizzante del colore, che dalle tonalità calde e pastose, tipiche dei quadri del dopoguerra, trascorre ai toni freddi e argentei delle visioni anni ’80 e ’90.
Ma che rapporto intrattiene il pittore con le sue origini? Quali umori e suggestioni provenienti dalla sua terra – e in particolare dalla natia Catania – ne intridono i dipinti, all’insegna di «una via tutta siciliana al surreale»? Per rispondere a questa domanda ci soccorre l’acuta penna di un altro conterraneo dell’artista, a lui accomunato dalla medesima passione per la Francia: Leonardo Sciascia. Al viaggio reale – e simbolico – che porterà Giovanni Calogero, dalla città etnea, a rincorrere il suo sogno artistico nel fertile clima della Ville Lumière, corrisponde infatti l’itinerario letterario – e metaforico – che guiderà Sciascia all’acquisizione – mediante la lezione di Montaigne, dei philosophes, di Foucault – di una vocazione al dissenso e al libero pensiero, in una parola alla maturazione della sua poetica. […]