Giuseppina Radice

L’affermazione di Goethe circa le sue poesie che avrebbero tutto il carattere di una grande confessione è ulteriormente rafforzata da Hegel per il quale l’essenza dell’arte consiste nel portare l’uomo di fronte a se stesso. E un artista che si pone di frontea se stesso non può fare a meno di visualizzare la sua vita che prepotentemente emerge in personali formecolori segno della sua vitalità artistica: la ricerca della forma può avere successo soltanto se è condotta come ricerca di contenuto, scrive Arnheim.
Quando l’immaginazione diventa produttiva? Quando le forme diventano significanti? Significanti di che cosa? Di che cosa esse si sostanziano?
Sono domande che da storico dell’arte continuamente mi pongo, specialmente quando analizzo una vicenda artistica lunga e complessa già conclusa, compiuta, per cercare di ricostruire ed individuare senza pre/giudizi e senza alcuna pretesadi determinarne il valore in termini di assoluto le coordinateentro cui l’artista (gli artisti di tutti i tempi, a mio parere, in verità) ha creato forme.
Significative del suo pensiero, del suo rapporto col mondo e con l’arte.
Non esiste un criterio generale su cui basarsi e sarebbe, a mio parere, del tutto improduttivo e fuori luogo esprimere giudizi di valore per artisti che avanzano in modo diverso perseguendo alcuni un ideale dello spazio piuttosto che del gesto, della formao del colore altri che, come Jean Calogero, preferiscono lavorare cercando la migliore collocazione di elementi in un repertorio che si arricchisce ogni volta di piccoli particolari e a cui conterisce restringendone o deviandone il significato una suggestione lirica.
L’autenticità si rivela per lo spirito o per la tecnica? Per l’abilità nell’uso di un procedimento o per l’idea?
Domande.
A mio parere è a leggi poetiche individuali che si deve sempre far riferimento, pur che si abbia la necessaria, rispettosa attenzione che la ricerca di un artista richiede. Penso infatti chela funzione (auto)critica di un artista non compaia soltanto al momento finale quando egli valuta nel suo insieme il lavoro già fatto, ma accompagni in maniera del tutto naturale il suo operare con continui interventi che portano a cancellare, a scegliere , a rinforzare, ad ampliare un po’ di questo un po’ meno di quello per esprimere al meglio quella che è in fondo la sua piccola epersonale verità e non la verità. (!)
In fondo il fare artistico è stato sempre – mutatis mutandis – risposta ad una naturale esigenza creativa nata con l’uomo:
sendo dotato da Dio sì nobilmente, sì come radice principio e padre di tutti noi, rinvenne di sua scienza di bisogno era trovare modo di vivere manualmente; e così egli cominciò con la zappa ed Eva col filare. Poi seguitò altre arti bisognevoli e differenziate l’una dall’altra; appresso di quella seguitò alcune discendenti … è questa un’arte che si chiama dipingere che conviene aver fantasia e operazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciandosi sotto ombra di naturali e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è sia.
E se l’ipotesi di Cennino Cennini che Adamo (proprio il marito di Eva!) dopo la meritata cacciata dal Paradiso terrestre sia stato non solo il primo uomo ma il primo pittore, appare azzardata solo fino a che non sia dimostrato il contrario – sembra – che i paleoantropologi concordino ormai nel riconoscere nelle pitture rupestri del xx e del xv millennio a.C. – e con altrettanta – validità non solo motivazioni sociali, animistiche o religiose ma anche un tema artistico in sé. Come dire: attraverso gli elementi necessari per qualsiasi forma di espressione (segno grafico, colore, tecnica, struttura e iconografia) anche nell’uomo preistorico affiorava – accanto al motivo antropologico – un motivo poetico e una ricerca estetica. La creatività è nata quindi con l’uomo e la personalità di un artista (ma anche di un uomo)è fatta sempre dell’accordo tra le intenzioni e i mezzi, tra le sue idee e il come le realizza.
Jean Calogero non ha scelto come nessuno di noi, d’altra parte il momento del suo inserimento nella storia: avrebbe potuto trovarsi in sintonia con la sua contemporaneità o trovarla incompatibile col suo temperamento. A contatto con grandi artisti ha vissuto un tempo (mi riferisco alla metà del ‘900) e ha abitato spazi (Parigi, New York, Los Angeles, Chicago, Giappone) che si potrebbero definire pericolosamente eroici dal punto di vista culturale nel senso più ampio del termine.
É come se il gioco di ogni esistenza umana fosse governato da due ruote della fortuna, una che decide le doti naturali che formano il temperamento di un individuo e l’altra che presiede al momento del suo accesso ad una determinata sequenza storica scrive George Kubler.
Non sempre la vicinanza e il confronto con realtà artistiche di alto livello è toutcourt un vantaggio: potrebbe anzi diventare un limite alla sua libertà espressiva o generare una sorta di comodo epigonismo. L’opera di ogni artista non è infatti irrelatané isolabile ma nasce dalla ricerca costante di una relazione organica tra una configurazione mentale e una sua concretizzazione. Queste riflessioni mi fanno pensare che Jean Calogero non abbia neanche scelto di fare l’artista: egli ha cercato la sua forma contemplando il mondo e rispondendo.
A suo modo. Semplicemente.
Facendo della sua pittura – in maniera tanto inconsapevole quanto irrinunciabile – il diario della sua vita. Di un’altra vita o meglio della sua vita in un altro mondo.
Il suo.
La pittura … non domandate come è fatta – scrive Savinio – la pittura ama se stessa. Indubbiamente quello che Jean Calogero ci mostra seppur organizzato attorno ad alcuni grandi schemi strutturali non è un mondo quotidiano: sembra anziché il suo vedere cominci dove finisce ogni possibilità di verifica obiettiva e che abbia privilegiato il tempo e lo spazio della fiaba come elemento ordinatore del suo universo: non solo non esiste ancora il tempo ma anche lo spazio appare profondamente disomogeneo, ineguale, diverso. Illo tempore – un eternamente presente che abbraccia le età più lontane – avviene tutto e il contrario di tutto: il mondo passato e il futuro, ogni persona, ogni luogo, ogni albero, ogni pietra, ogni oggetto deve/può comportarsi in maniera diversa: tutti i piccoli elementi, minuscoli meccanismi di un complesso marchingegno sembrano essere al posto giusto e perfettamente funzionanti.
Il phantasieren di Calogero è caratterizzato da una propensione all’abbandono favoloso ed al libero gioco del sogno e della fantasia; da una riconoscibilità che sembra avere ancora il primato tranne a venire sconfessata da alcuni elementi stranianti e straniati che egli inserisce con nonchalance nello spazio figurativo che con estrema perizia anzi ad arte costruisce per far sognare; da un realismo inevitabilmente artificioso e romanzato, raffinato e avvincente, appena sufficiente ad assicurare una relativa immedesimazione coi protagonisti delle storie; da un codice comunicativo che chiaramente invita ad andare al di là della realtà, delle sue apparenze e delle sue antinomie.
Una storia e un mondo né totalmente vero, né falso.
Mi chiedo quanto la scelta degli aspetti del mondo da rendere visibili e la rielaborazione fantastica di tutto ciò che è entrato nel suo campo percettivo sia stata consapevole o inconscia. È stata una conquista prerazionale (alla maniera dei Surrealisti)o post-razionale (necessità di ri/guardare una realtà mai facile con occhi ancora incantati)?
Io non l’ho conosciuto personalmente ma non lo immagino certo come un adulto (afflitto dalla sindrome di Peter Pan, sidirebbe oggi) che temendo di non reggere il peso di una vitanon supportata dalle illusioni si sia rifugiato in un mondo irreale. Karl Marx aveva teorizzato la necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione che è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni; a me sembra invece quasi parafrasando questa frase lapidaria che Calogero sia del tutto emancipato dalle illusioni: non le cerca ostinatamente né idealisticamente nel passato né vuole fornire una spiegazione a interrogativi sull’esistenza e sul cosmo. Ha scelto di non emanciparsi dai sogni e per questo non propone soluzioni impossibili alle contraddizioni della realtà ma desidera offrire soluzioni possibili per un mondo verificabile soltanto nel suo artistico paradigma di vita.
È come se dicesse: non toglietemi il piacere di dare l’illusione della vita alle mie creazioni più irreali!
E questo sicuramente non per paura di affrontare la vita reale ma per affermare con forza la sua volontà di non affrancarsi dall’effimero per lui indispensabile, dalla sua capacità che invece rinnova continuamente di giocare con i suoi oggetti, le sue maschere; con gli improbabili cappelli delle sue signore incuranti di ciò che avviene intorno a loro o che amabilmente conversano; con pesci-mongolfiere-isole-castellivolanti guardati da eleganti e minuscole dame-silhouettes riparate da minuscoli ombrellini; con donne dall’incarnato di bambola che reggono una acconciatura-mondodellefavolesulla testa e il cui corpo è lo spaccato di un condominio fantasmagorico di luoghi riconoscibili o diversi da isola che non c’è ma che attrae col suo fascino prezioso e smaltato; con falsi teatrini falsi di tutti i giorni che ormai lasciano indifferenti i passanti; con cavalli bianchi e neri che riescono anche a danzare, reggendo con eleganza, in perfetto equilibrio e senza alcuna fatica costruzioni enormi ed ingombranti che non crollano rovinosamente soltanto per forza di fantasia; con combattimenti senza sangue ma con suono di corno.
De soi-meme è il titolo di un carnet nel quale Odilon Redon annotava i frammenti dei suoi pensieri:
ho fatto un’arte secondo il mio parere. L’ho fatta con gli occhi aperti sulle meraviglie del mondo visibile … per far vivere umanamente degli esseri inverosimili secondo le leggi del verosimile, mettendo per quanto possibile la logica del visibile al servizio dell’invisibile.
Ecco. Secondo la modalità della rêverie che a dirla con Bachelard ha il suo fine in se stessa, nella gioia e nella felicirà cheelargisce a chi le si abbandona, Jean Calogero fluttuando trala realtà vissuta momento per momento e la sua traccia riveduta e (anche ironicamente, a mio parere) corretta crea per noi episodi, circostanze, eventi che si svolgono sotto i nostri occhi e che rimandano ad un mondo parallelo vivo e presente come l’altro ma appartenente solo alla sua coscienza di artista. Sceglie di volta in volta se rendere visibili o lasciarli solamente intuire i nessi di una contemporaneità riconoscibile in parte ma, appunto, fuori dal tempo è nella quale noi non pensiamo affatto di dover intervenire.
E nessuno avverte quel senso di impotenza che la realtà qualunque essa sia (ahinoi!) genera.
Nel 1956 è andata in scena a Parigi La belle Arabelle, operettadi Guy Lafarge compositore francese di musique habile, descrittocome homme affable, charmant, charmeur, souriant, érudit.
Fa parte di questa operetta un gustoso ed elegante choralmixed a cappella, una sorta di madrigale moderno che descrivei carillons les boîtes à musique come meccanismi un peu fantastiques, magiques et mystiques, tantôt poétiques, tantôt sarcastiques. Avec un rien d’ingénu…
Per una sorta di immediata sinestesia mentre guardo eri/guardo la musica che accompagna queste parole e che viene cantata in polifonia affiora e risuona alla mia memoria musicale come colonna sonora delle opere di Calogero: tranne alcune esse non sono di grandi dimensioni e mi sembrano proprio l’equivalente visivo delle boîtes à musique: caractéristiques / desairs ironiques / aristocratiques / qui vous communiquent /l’émoi romantique / parfum des temps révolus. Una storia e un mondo né totalmente vero né falso si diceva ma incantato e prezioso: il suo yo, che si esterna attraverso il più idoneoróyog. Un nonnulla di ingenuo, una emozione romantica, un profumo del tempo che fu…