Francesco Gallo
La pittura di Jean Calogero è fondata sul gioco inventivo della fantasia. Un gioco fervido di trovate paesaggistiche e cromatiche, quasi un inesauribile repertorio di immagini tutte ricche di colore e di narrativa. Già, perché i quadri di Calogero sono narrazioni di fatti, che potrebbero accadere se noi fossimo più disponibili ad aprire le porte alla magia della combinazione del sogno. Una combinazione che mette insieme l’ordinario e lo straordinario, così, con semplicità, ma appunto per questo con notevole risultato di sorpresa. Un risultato che non si nutre del troppo, dell’eccessivo, ma pretende la lievità, il tocco gentile, per essere in tono con se stesso, con il tempo del viaggio immaginario. Le polarità di questo andare sono, la Sicilia, da un lato, e Parigi, dall’altro, due amori profondi; vissuti senza riserve, senza rete di protezione. La Sicilia è l’imprinting originario, quello del luogo nativo che ti dà i primi colori, le prime parole, i primi amori, i primi odii. Parigi è l’incontro con l’Europa, con i grandi nomi dell’Arte internazionale, con quanto si fa e si dice da un’ottica elevata. Calogero mette insieme i colori della Sicilia e l’atmosfera del surrealismo parigino, e ne tira fuori un gioioso senso di festa, un distendersi di lunghe passeggiate in luoghi che a volte sono la Sicilia, a volte di Parigi o di Venezia, a volte di puro capriccio senza corrispondere a nessun luogo specifico, come accadeva in tanta pittura settecentesca: Calogero esprime un sentimento genuino dell’essere nelle immagini, una capacità di trasmigrare restando fermi, in rapimento d’estasi per curiosi animali volanti, per sui generis creature, sospese in alto, per dare stupore. Eppure dentro il quadro niente riesce a turbare niente, come se tutto fosse scontato e non ci fosse di che cosa stupirsi. Lo stupore è fuori del quadro, arrestato, al suo confine esterno, da un’abile strategia di misura, di mistura, o di filtro che dir si voglia.
Calogero usa il surrealismo come specchio di convergenze, come imbuto per riduzione all’unità del molteplice, del confuso, dell’assolutamente incoerente da rendere coerente, Il tutto è reso compatto dai colori smaglianti di una eterna primavera, di una inesprimibile tavolozza d’arcobaleno, da un annuncio di quiete dopo la tempesta. Niente che non sia leggero viene assunto da Calogero nella sua pittura, tutto è impalpabile come bianco polline che volteggia nell’aria, a seguire i più timidi aliti di vento che lo spingono di qua e di là, tanto polline da rendere mobile l’aria quieta e da disegnare ippogrifi o pesci volanti li dove non c’è altro che aria, sole e batuffoli bianchi.
Così, dal niente, Calogero fa emergere intere storie sotto gli ombellini, all’ombra di torri e di navi che travolgono la prospetriva e lo sfondo, venendo a porsi in primo piano, come dire che siamo nel mondo dei mille e un giorno, nel mondo della prospettiva rovesciata, dove un canto si sente più forte man mano che ci si allontana dalla voce che canta.
Jean Calogero racchiude nella sua pittura il ricordo della sua infanzia che non s’è cancellata col passare del tempo, anzi si è rafforzata nell’espressione di un volatile regno di magia immaginifica, una magia bianca candida, da cui sono bandite le streghe e gli orchi, così come è bandito anche don Chisciotte e l’ironia del cavalleresco. Questo anche in presenza di un piccolo mondo di cavalieri dalla incerta andatura: ma si tratta di un epopea di pupi, affidata a un godimento infantile, disponibile.
Quell’infantile che rimane in tutti e che faceva scrivere, al poeta, d’avere dentro un fanciullino, il vero autore della sua poesia. I quadri di Calogero sono delle grandi scenografie stranianti, in essi non c’è mai la simulazione dell’esistenza storica, c’è sempre l’apparenza teatrale, volutamente sottolineatrice della differenza, della individualità dello spazio artistico come spazio proprio dell’illusione, dell’allusione.
La regola d’arte è sempre rispettata, come si rispetta il rito in un grande mercato, come si rispetta la cerimonia all’arrivo di ambasciatori d’un paese lontano. All’interno dello spazio pittorico di Calogero c’è sempre lo sguardo, la strategia dell’osservazione, l’osservazione prestata e quella ricevuta. Le figure pittoriche sono come messe in posa per un click fotografico, in attesa dello scatto fatidico, ma, nello stesso tempo sono in osservazione esse stesse, come messe a scrutare oltre l’orizzonte del visibile.