Carmelo Strano

1947. Guerra finita. Si ricomincia. Dopo la distruzione si ricostruisce, dappertutto in Europa. L’America ingessa qualche piccolo osso. La Sicilia ha vissuto, in anteprima, l’euforia liberatoria. La piana di Catania ha pianificato i conti. Per tutti: fedeli e infedeli, belligeranti, renitenti e pentiti. Il Movimento indipendentista siciliano, alle prime elezioni regionali del 20 aprile accusa le prime scontitte, dopo cinque anni di impegno accanito. Uno dei suoi inni, parole e musica di un mio prozio. ma soprattutto mio “amico”, Michele Luigi Nicosia, cantava: “Sicilia cha nati ‘”da lu mari ‘balia nu stari chiù di li currenti… Lui, l’autore, continuò a cantare anche quando le prime bombe alleate distrussero la sua casa a Catania. Cosa che a lui, felicissimo, fece esclamare: “Biniditta bumma!”

Le correnti sono come le ciliegie, una tira l’altra. E non finiscono mai: tra Scilla, Cariddi e Gibilterra. Il vero simbolo di quest’ultima non è dantesco: limite della conoscenza ecc.ecc. Ma è questo: entro quest’area ci capiamo, anche senza parole, con mezziuoni sibilanti della bocca. Tutto ciò che viene da fuori ci disturba. Ma poi: chi dovrebbe venire da fuori? E dove troverebbe alloggio, essendoci già la base militare americana?

Nell’arte la Sicilia aveva un alfiere. Guttuso nel 1941 aveva esposto, al Premio Bergamo, “Crocifissione”. E ora è trincea sul fronte del conflitto, tutto italiano, figurazione contro astrazione. Per quest’ultima tendenza a Roma arrivavano anche Consagra e l’Accardi. La Sicilia orientale si esprimeva al figurativo con un iceberg, Nunzio Sciavarrello, il quale aveva fatto sue le istanze della Scuola romana dei Mafai, Scipione, Raphaël. Cosa fa un giovane smanioso di darsi all’arte in una Catania idealmente rinchiusa dentro i bastioni di Carlo V? Impara: al liceo artistico (che pare non completi), e poi a bottega, privatamente. Pittura, decorazione, mestiere, mestiere, mestiere. Ma perde il padre quando ha sette anni. E allora all’apprendimento del mestiere si aggiunge il lavoro. Novello Jack London, si prodiga in tante direzioni. La grande forza di Calogero (quando ancora il suo nome veniva pronunciato sdrucciolo, e non alla francese) è stata quella di capire l’importanza di fortificarsi nella tecnica, nei materiali, nell’impianto compositivo. E di fatti, una volta dominate queste basi del fare arte, tu puoi andare dove vuoi, artisticamente parlando. Calogero prese coscienza piena di ciò. E si incamminò non solo con la fantasia, ma anche con le gambe. Fino a Parigi. Abbagliato da carretti siciliani, da feste popolari, da pupi della Chanson de Roland e dai luoghi comuni, vuoi visivi (pescheria, mercato “a fera o luni”‘), vuoi sonori (battute umoristiche popolari), Calogero ha un’altra intuizione: prima di dare alla fantasia libero spazio e i supporti tecnici imparati è meglio farle cambiare domicilio. Ed eccolo all’Académie des Beaux Arts. Qualche perfezionamento. Ma non c’è tempo da perdere. Occorre fare l’artista e non lo studente. Per di più, qualcuno lo incoraggia, alla vista dei suoi lavori. E il caso vuole che questo qualcuno si chiami Severini (lo stesso anno, 1947 gli riconosce “molto talento”) e, non è dato capire dove, anche De Pisis (ottobre 1952).

Giunto nella Ville Lumière, Calogero, uomo portato a interrogarsi su di sé e sulla sua arte, si sarà posta la pesante domanda leniniana: “Che fare?” E che facevano gli altri? Un nuovo mondo avanzava, nella capitale dell’arte. Una sinfonia (per ricordare Dvorak) polifonica ultrawagneriana e ben oltre il terreno astratto dell’asse Kandinskytravinsky. Se Antonin Artaud invitava all’Art Brut, tra il ’47 e il ‘so l’arte diventava compulsiva linguisticamente e votata al materismo e al polimaterismo. Fautrier già nel ’43 aveva proposto i suoi Otages (ostaggi), carichi di memoria bellica. Yves Klein si avviava allo Judo e al clima dei Rosacroce. Vasarely faceva il cinetico, mentre Dubuffet brutaleggiava. Mathieu presentava alcuni colleghi affini a lui nella mostra Abstraction Lyrique, all’insegna di materia e gestualità. Magnelli insisteva nell’astrazione geometrica. Renato Birolli si dava il cambio con Calogero nella permanenza a Parigi: quest’ultimo arrivava, il primo partiva. Nel r95o si affaccia un personaggio rivoluzionario. Strano il nome suo e della sua prima opera data alle scene: Eugène Jonesco in “La cantatrice calva”.

Il bagno impressionista. Ora, che cosa può penetrare nella mente avidamente curiosa di un giovane appena giunto a Parigi, in mezzo al frastuono provocato dal nuovo, oltre i surrealismi, le metafisiche, i dadaismi, gli astrattismi? Ecco la risposta: ciò di cui tutti erano imbevuti, inzuppati: da molto, da poco, da pochissimo. Dovunque ti giri, in qualunque arrondissement, ne respiri l’atmosfera, la consistenza, ‘inconsistenza, i baluginii, tremolii, le vibrazioni di luce. Dovunque ti giri ci caschi: si tratti di Degas (Calogero abitava nella casa che fu del maestro impressionista) o Monet, Manet o Renoir. O te ne rendi conto o ne cadi vittima. Senza possibilità di recupero. Non c’era alternativa: o fare i conti con l’impressionismo o fare i conti con l’impressionismo. Diversa sarebbe stata la situazione se Calogero fosse arrivato con un background culturale più aggiornato. Come accade a Burri. Ma in un percorso inverso. Calogero si muove da Catania verso Parigi, diversamente dall’umbro che torna a Roma dopo diverse provocazioni ricevute in Usa. Non è difficile rilevare che non c’è posto, nella sensibilità del catanese, per rivolgimenti compulsivi alla Pollock o alla Soulages o alla Vedova o alla Burri o alla Fontana. L’impressionismo francese, a dispetto del tempo passato (oltre 60 anni), a dispetto degli attacchi assestati dai movimenti seriori, anche se ha smesso i panni di tendenza deviante, non ha perso in ogni caso lo smalto al livello dell’inventiva compendiaria, della sintesi immaginativa (più allusa che detta), al livello, anche, di una certa civetteria, per dirla con De Saussure, nella “langue” (il vocabolario generale) e nella “parole” (il connotato realizzato dall’artista). Les jeux ne sont pas encore faits, per parodiare l’espressione dei croupier. I giochi sono aperti: proprio sul terreno dell’impressionismo. Se non conoscessimo il dipinto “Bar aux Folies Bergères”, saremmo indotti a dire che abbiamo scoperto un Manet inedito. Dell’impressionismo Monsieur Calogero, ora Jean, ha metabolizzato ogni istanza, contenutistica e linguistica. Quanto al soggetto umile, nessuno sforzo. Lo stesso artista ricorda che, da ragazzo, si imboscava volentieri nella soffitta di casa: un deposito di oggetti dismessi e vecchi, odore di muffa e di passato, odori di cose fuori dal tempo, come narra una vecchia canzone intonata nostalgicamente al “Vecchio scarpone” che fa rivivere tanti ricordi (la imparai, bambino, a Camogli). Là, per sua ammissione, Calogero si rifugiava, sfuggendo alla realtà quotidiana ed eterna: quella delle contrarietà, dei malintesi, delle lotte nella società, dei grandi pensieri angoscianti e tristi. Ed ecco l’armamentario dell’artista: bambole, balocchi e profumi, ombrelli, nature morte, manichini, abiti carnevaleschi, maschere, gabbie per uccelli, maschere, e ogni stilizzazione figurale (soprattutto soggetti femminili) e ogni situazione paesaggistica, terrestre o marina, da questi oggetti provocata.

In questi oggetti c’è il leit motif iconologico di Calogero. Un’altra situazione iconologica è data da spaccati urbanistici e architettonici su base realistica. Un terzo corredo iconologico è legato al racconto mitologico o epico.

Si tratta di capire meglio, ora, con quale piglio poetico Calogero si cala in queste tematiche iconologiche.

Al Circo, 1948 (cm. 54×73). La tessitura compendiaria del colore (una tavolozza ricca e accesa) la fa da protagonista, ad eccezione del piccolo clown in primo piano a sinistra. Se si esclude il colletto (un rosso sfaldato e sfilacciato), per il resto ogni altro elemento rappresentato è ricco di particolari di stampo realistico: cappello, anch’esso rosso, blusa blu con bottoni rossoneri, capelli bruni. Calogero ha vestito un viso inespressivo, uno sguardo fisso sperso, privo di anima. Un viso stereotipato a cui il rosso acceso delle labbra non dà (né lo si vuole) carattere o significato. Il laboratorio di Calogero si rivelerà presto pieno di sorprese, rocambolesco, capriccioso in modo sornione ma autentico nella sua verità disarmante.

Questi primi alambicchi producono la fusione tra la pitu, di tocco” impressionista e un tratto poctico e compositivo ci) recupera il picassiano periodo blu per cromatismo, sorgeto. IMOsfera generale, Le cromie luministiche dei personagei ¡tasi colpi di luce) si consolidano, secondo il Céranne dell, Montagne Sainteictoire (ma più ancora dei Giocatori d Carte) in materismo policromatico e grumoso del Nudo (con un po’ di memoria di Renoir) del 1949. Aveva ragione nel gr Waldemar Cicorge (che, assieme a Maximilien Gauchier, ha dato i primi ma forse gli unici veri contributi alla ricerca di Cala. pero) a fare cenno al “tachisme”, al gusto per la macchia de stampo informale: una nota di aggiornamento che l’artista non avrebbe mai ricevuto a Catania. Ma c’è da pensare che il di. pinto non casualmente porta la stessa data di nascita dell’Ecole de la Réalité, ad opera dell’artista Henri Cadiou: i drappi vivono di vita interdipendente per forza di valore timbrico, rosso, rosso striato di nero e verde con macchie rosse. L’incarnato à pruriginoso, con ombre colorate, secondo l’esperienza impresSionista. Il dado è tratto: nessuna eco di mediterraneità arabeggiante. Calogero entra nel respiro europeo proprio del contesto parigino con una piccola mediazione fauve. Breve l’interesse per questa piega verso la “réalité”. Essa fa sognare poco, non lascia spazio all’immaginazione e ancor meno alla fantasia.

Nell’economia generale dell’opera di Calogero, il terreno surrealista sembra prenda il sopravento sull’influenza impressionista. Se questo può dirsi sul piano poetico (ma con ampie riserve che stiamo per dire), non vale sul piano del linguaggio e della ressitura cromatica. In rapporto a questi ultimi rilievi, la lezione impressionista, frammista a rapidi ammiccamenti alla “macchia” (tache; ma escluderei, diversamente da come ha fatto Waldemar George, il riferimento ai Macchiaioli che non sfiorano minimamente Calogero) rimane una costante, sia pure come leit motif di fondo.

Surrealista, Calogero? Facile a dirsi. Difficile convincersene. Calare un grande cavallo bianco bardato guidato da un cavaliereanichino e amorfo in un paesaggio, ad esempio in un contesto lagunare con donne ottocentesche con ombrellino, non senza le insistenti gabbie sparse qua e là è impresa ariostesca. Ciò, anche in virtù delle sovrapposizioni temporali. Ma l’opzione surrealista insiste, come ha detto chiarissimamente Breton, sull’automatismo psichico puro, ossia su uno stato fortemente onirico. Non basta che la fantasia si scapricci, non basta ciò che può risultare impossibile. Occorre l’incursione nella psicologia del profondo. Ossia un’attitudine (si direbbe, con Riegl, una “volontà d’arte”) fortemente introspettiva, spontaneista nella propria follia. Daremmo meno credito a Dalì se non fossimo toccati anche dalla sua vita performativa. Sotto questo aspetto, Calogero rimane molto mediterraneo, molto solare e soleggiato per essere un vero, seppure tardivo, surrealista. Ci vuole un’attitudine comportamentale che accompagna gli oggetti d’arte, per essere surrealisti doc.

La famosa espressione di Lautréamont “l’incontro casuale di un macchina da cucire e di un ombrello in un tavolo operatorio” va decadentisticamente estesa a tutto il personaggio. Leo mardo Sciascia, nell’ introdurre l’opera di Calogero nell’occasione della mostra alla Robinia di Palermo (1969) tutto sommato inruisce questo inganno, anche se si limita a dire che si tratta di un surrealismo opera di un siciliano. Ossia un non surrealismo, L’opera dei pupi, il carnevale, la mitologia, il circo salvano Ca. logero dalle grinfie onnivore di Dal. L’importante è conoscerle, queste grinfie: quanto basta per starsene poi alla larga. Anche per non essere un falso surrealista, e per continuare ad essere si. culo arricchito da un’ampia visione. Calogero ha una rivendicazione sindacale forte e irrinunciabile: il diritto a sognare. Un sogno ad occhi aperti. Un’evasione vera, ariostesca, appunto, ossia tale da rendere paradossale la realtà da cui parte. Il surrealista è un prigioniero che sogna di evadere. E allo scopo rimugina sul proprio inconscio. Calogero è un uomo libero che sogna di evadere con piena coscienza e pieno controllo dei propri stati emozionali. Come il puparo che muove i fili, e, nel mentre lavora e gode, partecipa al gioco. Un’unica condizione ludica, dove tutti sono attori: i pupi, i fili, la voce, la musica, il puparo stesso. Calogero, avendo forte il senso della scena, pro babilmente era a conoscenza del principio di Supermarionetta introdotto da un caposaldo della scenografia contemporanea, Gordon Craig. Il puparo Calogero, tradotto in continentale, ¿ una supermarionetta. E lasciatemi sognare (giocare) come voglio, non datemi regole programmatiche. Ciò non esclude il fatto che deve aver visto, al suo arrivo a Parigi, una mostra di richiamo. Alla galleria Maeght, Breton e Duchamp presentavano una mostra riassuntiva sul surrealismo internazionale. La viva curiosità di Calogero ne avrà subito il contagio. Ma non si dimentichi che l’artista ebbe a dire, nel ’57, a François Christian Toussaint che “il colore non si vede, ma si sente”. In questo caso, il sentire il colore è incompatibile con ‘elucubrazione pretestuosa dell’automatismo psichico puro. Tanto che, se conforto per quest’espressione vogliamo trovare, conviene rifarsi a un nonlucubratore, pur esponente del surrealismo. Mi riferisco ad André Masson. Ma qui l’attenzione si sposterebbe sulla casualità. E da questa Calogero è lontano quanto la sua anima è lontana da questo mondo. Perché non rispettare l’attitudine integra, vitalistica, a fondere gioco e sogno? Un binomio non asettico, bensì animato dai fantasmi della propria spiritualità, della propria cultura, delle proprie tradizioni. Tutto solare? Tutto solare. Calogero non è uno chef canonico, non rispetta il manuale dell’Artusi. I suoi appetiti o le sue golosità sono convinti e convincenti. Gli ingredienti sono quelli suggeriti da questi appetiti. Il dosaggio altrettanto. Quanto di Metafisica? Quanto di Arcimboldi? Quanto di Piero della Francesca mediato da Seurat? Quanto di Magnasco o di Canaletto? Quanto di barocco? A Parigi c’era un personaggio ingombrante, non solo fisicamente. Diede un forte contributo alla modernizzazione. Calogero probabilmente non avrebbe portato fruttuosamente a termine il suo progetto di originalità, senza il “raffreddamento” cromatico, formale, impaginativo (ammiccante al cloisonnisme) derivato da Fernand Léger. Quando subentra questa incidenza, la fantasia di Calogero prende il sapore del futuro. E gli spaccati urbanistici e i paesaggi sono aggrediti dall’arcivernice del famoso e dimenticato Pier Lambicchi. E tutto si anima, come per incanto. E vive di vita nuova. Come piazza Navona. Immagino quanto interesse scoppierebbe in Bob Wilson se dovesse imbattersi nelle opere di Calogero! Va detto che un tale laboratorio dell’improbabile (dove fa capolino Jonesco, non tanto per l’assurdo quanto per il paradossale) non ha giorni né orari di chiusura. Quando si pratica l’atemporalità, o si è sempre chiusi o si è sempre aperti. L’alchimista Calogero si rivela un abilissimo, originale e accattivante manierista che fra le sue provette non ha quella della casualità. Il suo laboratorio è stato sempre attivo. Come il malcelato sottofondo esistenzialistico che fa da basso continuo, anche quand, non si sente. Come accade con l’Etna.

Si dice di richiami affettivi, a proposito del suo rimpatio, Catania: Sono portato a pensare che Calogero, mercantilment fortunato (anche in Usa e Giappone, America del sud) ma poca occaro da quest’aspetto, aveva esaurito il suo confronto con quella che ormai era l’exille Lumière: Peraltro, nuove ondate avanguardistiche si affacciavano a stordire le sue peregrinazioni paraoniriche. I modi espressivi si erano nutriti di internazio nalità, ma il modo sognante di esprimersi aveva mantenuto le sue radici ad Aci Castello, nei luoghi omerici. Forte impulso a partire per Parigi, forte impulso a tornare a Catania. E del 1982 la mostra dal titolo significativo, a questo riguardo, “Luci e sogni della mia terra” realizzata nella città etnea. In apertura di catalogo scriveva: “Sono tornato a cogliere a piene mani luce e sogni … Da Parigi, dove ho vissuto per decenni e dove ancor ho studio, le mie opere hanno percorso in lungo e in largo i continenti ed io con esse. Ma la nostalgia per questa mia terra era patina agli occhi e tristezza al cuore”. Da questo stato d’animo e dalla natura della sua poetica non ci si poteva aspertare, certo, radicali cambiamenti. Salvo che un raptus non lo avesse portato a concepire un tipo d’arte totalmente diversa. Ma la natura va rispettata. La conseguenza è che dal suo ritorno in patria Calogero, tecnicamente consumatissimo, si fa fruitore di se stesso, tuffandosi nel godimento pieno della sua dimensione atemporale.